03 maggio 2017

CRISI IN MACEDONIA: L’IPOCRISIA DELL’OCCIDENTE NEL FUOCO DEI BALCANI

Caro Diario
Pubblichiamo un articolo di di Giampiero Venturi sulla situazione nei Balcani. Come i nostri lettori piú scafati sanno, ci aspettiamo che sia da li che proverrá la scintilla che fa saltare la polveriera.

Il primo problema è nato nel 1991, nel momento stesso in cui la Macedonia ha dichiarato l’indipendenza. La Grecia non voleva uno Stato confinante col nome di una sua regione (con capoluogo Salonicco). Era come se la Svizzera si fosse chiamata Lombardia. La Macedonia per poter esistere ha dovuto prendere il nome di FYROM, acronimo inglese di Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia. In ordine alfabetico all’ONU si posiziona infatti dopo la Francia.

Il confine non è blando. Le due repubbliche non si amano e i controlli ci sono. Si esce dall’UE con un salto indietro nel tempo.

La Macedonia era la più meridionale e povera delle sei repubbliche jugoslave. Entrando dalla Grecia, che di questi tempi non è il Bengodi, è come smontare dalla moto e salire su un mulo. Si avverte una malinconica e bellissima differenza.

L’autostrada M1 che porta verso Skopje prende il nome di Alessandro il Grande. Come per tutti i Paesi ex comunisti, tutto ciò che era dedicato ai paladini del socialismo reale, ha ripreso i nomi di una volta.

Chi meglio di Alessandro Magno poteva rilanciare l’immagine nazionale di un Paese antichissimo?

A piazza Macedonia, centro di Skopje, il condottiero campeggia enorme su cavallo rampante (la statua è stata fatta da un italiano, nda). Inutile aggiungere altro.

Tra identità sopite e orgoglio nazionale, tra campagne rocciose e valli vuote, la Macedonia sembra un’Umbria disabitata. S’incrociano auto di fabbricazione jugoslava inesistenti solo pochi km più a sud. Ci sono poco più di tre ore tra il mare di Salonicco e la periferia di Skopje, ma la distanza in realtà è enorme.

La Macedonia è un Paese piccolo ma complesso perché come sempre capita nei Balcani, la Storia ci mette il dito.

Proprio di fianco alla piazza centrale della piccola capitale, c’è il ponte in pietra simbolo della città. Porta alla Carsija, la città vecchia dall’architettura ottomana e a prevalenza islamico albanese. Tra balconi di legno a loggia, vialetti acciottolati, caffè, botteghe, uomini seduti, minareti che sbucano come missili verso il cielo, si nota l’impronta turca che ogni tanto nel Balcani fa capolino. Skopje ricorda una piccola Sarajevo.

La Macedonia è un groviglio di montagna: a soli 25 km da Skopje inizia il Kosovo, croce e delizia per la gente di queste parti.

La parte occidentale del Paese è abitata da albanesi in prevalenza musulmani; sono circa 500.000 su 2 milioni di popolazione a maggioranza slava e cristiano-ortodossa. Tra slavi e albanesi tira brutta aria da otto secoli e niente lo ha spiegato meglio della Guerra del Kosovo del '99.

Le bombe NATO sono durate poco, ma gli effetti degli errori commessi sono stati lunghi. Si sono uniti a problemi atavici che da queste parti sono tosti da risolvere.

Due anni dopo la guerra in Serbia, nel 2001 è scoppiata la guerra civile tra governo centrale e macedoni di etnia albanese. Alla fine è rimasto tutto com’era e l’idea di una Grande Albania tanto cara agli USA e alla UE, si è essiccata al sole.

Nei villaggi occidentali della Macedonia ci sono però ancora bandiere rosse con l’aquila al posto di quelle macedoni. I vecchi indossano i qaleshe tipici dell’etnia albanese che si distingue anche per i tratti più piccoli e brevilinei. Le montagne e i boschi che portano al Lago Ohrid sono state la tana dell’UCK del resto, non di boyscout in gita…

Inutile negare: l’Albania incombe da ogni lato e si scontra con una radice slava ritornata di moda. Il monastero ortodosso di Sveti Naum (Santo Naum) sul Lago Ohrid, spiega tutto: fa da sentinella alla cristianità e ad una cultura slava che non vuole soccombere alla pressione demografica turco-islamica.

Ad un metro c’è la sorgente del Fiume Drim Nero che poi risbuca dopo il lago di Ohrid. Come tutti i fiumi dei Balcani potrebbe raccontare molti dolori di queste terre martoriate: il Neretva, la Sava, la Drina, il Vrbas, il Bosna, il Morava, l’Iskar, l’Ibar, il Vardar… lo stesso Danubio. Per ogni goccia d’acqua, millenni di morte, di onore, di sangue e di Storia.

In Macedonia passa un confine eterno che Unione e Stati uniti hanno sottovalutato. Soffiare sul fuoco senza capire gli equilibri locali è stato un azzardo che per forza di cose fa tornare i nodi al pettine.

Manifestanti del VMRO-DPMNE (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone), ispirati dall’identità nazionale e cristiana, il 27 aprile hanno occupato il Parlamento per protestare contro la dubbia elezione a presidente dell’assemblea di Talat Dzjaferi, esponente della comunità albanese.

Nonostante il VMRO-DPMNE si sia sempre dichiarato incline a buoni rapporti con l’Occidente (ingresso nella UE e nella NATO, a cui però si oppone la Grecia), l’Occidente ha continuato ad ignorare la sordida ingerenza albanese nelle questioni macedoni. L’ha ignorata, sia chiaro, dopo averla appoggiata pesantemente ai tempi delle guerre nei Balcani. L’UCK, come tutti sanno, non si finanziava da solo…

Da Tirana intanto arrivano inquietanti richiami alla Grande Albania, viatico di un ritorno turco nei Balcani. Anche le istituzioni albanesi del Kosovo mostrano attenzione, riportando in auge gli spettri di una guerra civile tra macedoni nazionalisti cristiani e macedoni filoalbanesi islamici.

Nel marasma arrivano le parole di circostanza della Mogherini che finge di non ricordare le posizioni assunte dall’Occidente negli anni ’90.

La Russia, che stringe intanto con Belgrado, fa notare che quei tempi sono finiti e che chi volesse mettere ulteriore disordine nei Balcani deve tener conto dei nuovi assetti.

Dopo aver alimentato l’insorgenza albanese a cavallo tra Serbia, Montenegro e Macedonia, oggi l’Unione Europea invita alla calma con un’ipocrisia ai limiti del ridicolo.

È come mettere benzina vicino ad un camino acceso e poi lamentarsi perché nessuno chiama i pompieri.

(foto: dell'autore e dal web)